di Giorgio Beretta – Fonte: © il Manifesto
Dopo il triplice omicidio di domenica a Roma. Poligoni di tiro senza verifiche né controlli. E
chi ha problemi psichici non è segnalato.
La sparatoria che domenica scorsa ha sconvolto un tranquillo rione di Fidene vicino a Roma ricorda i mass-shooting che con puntuale cadenza si verificano nelle più disparate località degli Stati Uniti. La “cultura” delle armi da fuoco, cioè di quelle lecitamente detenute sulla base del fatto che «ad un onesto cittadino non si può negare il diritto a difendersi», da anni si sta facendo strada anche in Italia. E poco conta se – come dimostro nel mio libro, Il Paese delle armi. Falsi miti, zone grigie e lobby nell’Italia armata, pubblicato da poco da Altreconomia – oggi in Italia la probabilità di essere uccisi da un ladro durante una rapina nella propria abitazione è minore rispetto a quella di essere uccisi per la scarica elettrica prodotta da un fulmine.
«Non si può morire così», è stato il commento della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per l’omicidio dell’amica Nicoletta Golisano (50 anni). Nella sparatoria Claudio Campiti (57 anni) ha ucciso altre due donne, Elisabetta Silenzi (55 anni) e Sabina Sperandio (71 anni) e ferito altre quattro persone. Lo ha fatto sparando con una pistola semiautomatica rubata ad un poligono di tiro. Ma il problema non può essere relegato all’accertamento in sede giudiziaria delle responsabilità degli addetti del poligono, il Tiro a Segno Nazionale (Tsn) di Tor di Quinto, da cui l’assassino ha sottratto la pistola semiautomatica che ha utilizzato per la strage, insieme a due caricatori e a 170 munizioni.
Questo caso mette infatti in luce una serie di vuoti normativi, di vulnus amministrativi e di zone d’ombra che riguardano le norme che regolamentano l’accesso e la detenzione delle armi comuni nel nostro Paese. A cominciare dal fatto che per poter sparare ad un poligono di tiro – dove vengono utilizzate vere armi da fuoco – non è necessario un porto d’armi. È sufficiente iscriversi presentando il proprio certificato generale del Casellario giudiziale e dei carichi pendenti della Procura di residenza. Ma – come si legge proprio sul sito del Tsn di Roma – «in sostituzione dei suddetti certificati l’interessato può sottoscrivere presso i nostri uffici l’autocertificazione prevista dalla Legge 4.1.68 n. 15 art. 20».
E nessuna norma prescrive che il poligono debba poi verificare la veridicità di quanto affermato dall’interessato. Non solo. Ai poligoni non è richiesto di accertarsi presso le autorità di pubblica sicurezza se ad una persona che fa domanda di iscrizione sia stato negato il porto d’armi o sia stata ritirata una licenza per armi. Grazie a questi vulnus normativi, Campiti ha potuto accedere indisturbato al poligono di Tor di Quinto e impratichirsi con le armi nonostante gli fosse stato negato il porto d’armi già dal 2018.
Altri vuoti normativi riguardano la mancata comunicazione alle questure e prefetture da parte degli uffici
comunali del decesso di una persona che detiene armi: è il caso che ha riguardato la strage di Ardea dell’anno scorso, dove il figlio di una guardia giurata ha continuato a detenere la pistola del padre defunto e con questa ha ucciso due bambini e un anziano.
Ma soprattutto la questione riguarda la mancanza di obbligatorietà di comunicazione da parte dei medici di base, delle Asl e di medici specialisti alle autorità di pubblica sicurezza nei casi in cui un legale detentore di armi incorra in problemi di tipo neurologico, in disturbi mentali e della personalità o sia sottoposto a terapie con psicofarmaci che possano, anche temporaneamente, interferire con lo stato di vigilanza. In tutti questi casi, che spesso presentano anche manie persecutorie e tentativi di suicidio, il legale possessore di armi continua a detenerle per tutto il periodo della licenza che generalmente è di 5 anni. E non sono pochi i casi in cui persone depresse o in cura per disturbi mentali hanno utilizzato l’arma per compiere un omicidio.
Infine, la normativa attuale prevede che chi fa domanda di porto d’armi lo comunichi ai conviventi maggiorenni, compresa la moglie o la compagna, ma di fatto da oltre dieci anni manca un regolamento attuativo e le autorità di pubblica sicurezza non possono verificare: ciò significa che oggi un uomo può detenere legalmente delle armi all’insaputa della moglie.
Se non vogliamo ritrovarci a parlare degli stessi problemi di cui da decenni si discute dopo una strage, è necessario che le forze politiche, soprattutto quelle della destra ancorate alla “cultura delle armi”, comincino a prendere seriamente le proposte avanzata da anni dalle associazioni della società civile. Limitarsi a condannare questi atti non risolve il problema che va invece contrastato con provvedimenti normativi e controlli più frequenti sui legali detentori di armi.
Fonte: © il Manifesto