Martedì, 15 Gennaio 2013
Le reti europee chiedono una discussione nel Parlamento europeo
Anche diverse associazioni della rete ENAAT (European Network Against Arms Trade) hanno rilanciato con un comunicato i dati e diverse osservazioni che ho svolto nell’articolo per Unimondo sottolineando come la Relazione europea, a 14 anni dall’entrata in vigore del Codice di Condotta (aggiornato nel 2008 dalla Posizione Comune sulle esportazioni di sistemi militari) sia ancora “poco trasparente, incompleta e non pubblicizzata”. In un articolo per il portale Public Service Europe, Kaye Stearman della britannica Campaign Against Arms Trade (CAAT) ha evidenziato come l’Unione europea continua ad armare paesi poco democratici: “Vendere armi a paesi autoritari è pericoloso, non solo per quelle popolazioni e i loro vicini, ma per l’Europa stessa” – avverte l’attivista. Wendela de Vries della Campagna olandese contro commercio di armi ha quindi espresso l’auspicio che la Relazione – a differenza degli anni precedenti – venga discussa nel Parlamento europeo, in quanto riporta dati e cifre “di enorme rilevanza per i diritti umani, la pace e la sicurezza comune”. Anche gli attivisti e vari centri di ricerca in Germania, Belgio, Spagna, Repubblica Ceca, Norvegia e Svizzera hanno commentato con preoccupazione le cifre che emergono dalla Relazione europea sull’export di sistemi militari.
L’Osservatorio OPAL interpella il Prefetto di Brescia
L’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere – OPAL di Brescia in un comunicato ha evidenziato come “i dati della recente Relazione dell’Unione Europea sulle esportazioni di armi confermano quanto abbiamo posto all’attenzione lo scorso aprile in occasione di EXA: una parte delle armi esportate nel 2011 dalla Provincia di Brescia sono di tipo e di calibro simile a quello militare e, pur a fronte delle limitazioni normative comunitarie, sono state fornire a nazioni sottoposte ad embargo di armi, a paesi in conflitto e dove si verificano gravi violazioni dei diritti umani”. Con una specifica conferenza stampa – ampiamente ripresa dal quotidiano Brescia Oggi (12/01/2013) – OPAL ha rinnovato la richiesta al Prefetto di Brescia, dott.sa Narcisa Brassesco Pace, di chiarire “quali siano i destinatari e gli acquirenti specifici di queste armi e, soprattutto, in base a quali valutazioni siano state rilasciate le autorizzazioni all’esportazione in zone così critiche”. Il dettagliato comunicato di OPAL riporta meticolosamente le esportazioni effettuate nel 2011 dalla Provincia di Brescia a diversi paesi tra cui la Bielorussia, un paese sottoposto nel giugno 2011 dall’Unione Europea ad embargo di armi e il Libano, una nazione sottoposta dal 2006 ad embargo di armi; a diversi paesi acquirenti nel nord Africa e nel Medio Oriente, a nazioni dove da anni sono in atto scontri interni tra forze governative e gruppi armati come la Colombia, il Messico e l’Honduras fino al Turkmenistan, un paese che il Dipartimento di Stato americano qualifica come uno “stato autoritario” riportando una lunga serie di violazioni dei diritti umani. Anche il mensile Missione Oggi ha dedicato nel numero di gennaio un ampio articolo con dati e tabelle sulle esportazioni di armi bresciane.
Export UE di armi: i regimi del Medio Oriente primi clienti
I dati dell’ultima Relazione europea sulle esportazioni di armamenti confermano quanto già affermavo lo scorso aprile in un dossier per “Missione Oggi” (qui in .pdf): “I paesi dell’Unione europea sono oggi i maggiori esportatori mondiali di armamenti. Nel loro insieme, le esportazioni militari dei 27 Stati membri superano ampiamente sia quelle degli Stati Uniti, sia della Russia. La parte più consistente delle esportazioni militari è diretta a paesi dell’emisfero Sud del mondo”.
Analizzando attentamente i nuovi dati – non solo dell’ultimo anno ma dell’ultimo quinquennio (dal 2007 al 2011) – si scopre infatti che i paesi dell’UE hanno autorizzato trasferimenti di materiali militari agli Stati membri per poco più di 60 miliardi di euro (34,2%), ai paesi del Nord America meno di 19 miliardi (10,7%), alle economie avanzate dell’Oceania (qui compreso il Giappone) per quasi 7 miliardi (4,2%) e agli altri Stati del continente europeo (compresa la Turchia) per meno di 11 miliardi (6,2%). Mentre verso i paesi del Sud del mondo sono state autorizzate esportazioni di armamenti per quasi 79 miliardi di euro (il 44,7%) di cui alle nazioni del Medio Oriente per circa 35 miliardi di euro (19,5%), ai paesi dell’Asia per quasi 28 miliardi (15,8%), all’Africa per oltre 9 miliardi (5,2%) e ai paesi dell’America latina per quasi 7,5 miliardi di euro (4,2%).
Sempre nell’ultimo quinquennio, da tutti gli stati membri verso gli Stati Uniti sono state autorizzate esportazioni di armamenti per circa 17 miliardi di euro (9,6%). Ma ne sono state autorizzate una quota consistente anche alle nazioni mediorientali governate da regimi autoritari come l’Arabia Saudita con forniture per oltre 15 miliardi di euro (8,7%), gli Emirati Arabi Uniti per circa 8,5 miliardi (4,9%), l’Oman per oltre 3,8 miliardi (2,2%) e il Kuwait per 2,3 miliardi di euro (1,3%). A paesi in conflitto (si pensi al Kashmir) come l’India per oltre 6 miliardi (3,5%) e al Pakistan per esatti 3 miliardi (1,7%). E anche ai paesi delle rivolte della primavera araba come il Marocco per quasi 2,9 miliardi di euro (1,6%), l’Algeria per 2,6 miliardi (1,5%) e l’Egitto per 1,2 miliardi (0,7%). Le armi, quindi, continuano ad essere la merce di scambio privilegiata dei paesi europei per pagare le proprie forniture energetiche e di materie prime, strumenti sofisticati da esportare verso i paesi emergenti senza badare troppo alla situazione interna o alle conseguenze sulla stabilità nelle varie zone del mondo.
UE: urge un “cambiamento radicale” delle politiche dell’industria militare
L’ampia consistenza di esportazioni di armamenti da parte degli Stati membri verso numerosi paesi del Sud del mondo e le aree di maggior tensione del pianeta dovrebbe portare ad una profonda riflessione sull’effettiva applicazione dei criteri restrittivienunciati nella Posizione Comune dell’Unione europea del 2008 sulle esportazioni di armamenti.(in .pdf). Va invece segnalato il crescente attivismo degli stessi capi di governo dei paesi dell’Unione europea presso le rappresentanze politiche di vari Stati esteri per assicurare alle industrie del proprio paese contratti per forniture militari di notevole valore: insieme ai numerosi casi di corruzione che hanno coinvolto diverse delle maggiori industrie militari europee (tra cui l’italiana Finmeccanica), l’impegno in prima persona di capi di Stato e di governo sta a dimostrare il forte livello di concorrenza nel settore dell’industria militare europea.
L’obiettivo del rafforzamento di una base tecnica ed industriale di difesa europea al fine di contribuire “all’attuazione della politica estera e di sicurezza comune” rischia così di essere messo in secondo piano e ampiamente sopraffatto da logiche di tipo economico-industriale, dalla necessità cioè per le industrie militari nazionali di doversi affermare in mercati sempre più competitivi anche per ridurre le spese di sviluppo e progettazione di nuovi sistemi d’armamento.
Un pericolo, quest’ultimo, che è stato ben evidenziato anche da un recente documento del Comitato economico e sociale europeo che ha espresso un parere sul tema «Necessità di un’industria europea della difesa: aspetti industriali, innovativi e sociali» (qui in .pdf). Non è questa la sede per un’analisi approfondita del documento, ma va segnalato che il Comitato evidenzia ripetutamente che “Non esiste un’impostazione strategica comune, né tra i governi, né tra i partner industriali. Tutte le società industriali con sede in Europa si focalizzano sui mercati d’esportazione. (2.4) E più avanti: “Le industrie della difesa dispongono di un notevole margine di manovra sui mercati d’esportazione. Ciò è in parte dovuto alla privatizzazione e in parte all’incoraggiamento da parte dei governi: la crisi economica sta trasformando alcuni ministri della Difesa in promotori delle esportazioni esplicitamente riconosciuti” (4.2).
Il comitato avverte quindi che “Se l’Europa intende mantenere una solida industria della sicurezza e della difesa, capace di sviluppare e produrre sistemi all’avanguardia, garantendo in questo modo la propria sicurezza, è necessario un cambiamento radicale di mentalità e di politiche” (2.13). Esportare armi – facendosi concorrenza – per tenere in piedi una ventina di industrie nazionali della difesa può quindi portare all’effetto opposto: quello cioè di aumentare l’insicurezza e fornire armi proprio a chi in un futuro nemmeno tanto remoto ce le potrebbe ritorcere conto. Le vicende dall’Iraq di Saddam Hussein fino alla Libia di Gheddafi (e quanto sta succedendo ancora in questi paesi in questi stessi giorni) sono lì a ricordarcelo.
Giorgio Beretta
giorgio.beretta@unimondo.org
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