21 Luglio 2020
Oggi è ormai cosa piuttosto nota che otto merci su dieci nel mondo transitano via mare e di tutto quello che viene trasportato, molto viene trasportato nei container. Eppure, verso la fine degli anni Sessanta in pochi ci avrebbero scommesso. Si diceva che un giorno il capo dei camalli genovesi, mentre osservava il funzionamento di un carroponte montato sulla nave che agganciava e movimentava da solo i container, realizzò che svolgeva il lavoro di quattro portuali e impallidì. Stava finendo l’epoca del porto “emporio” che s’intravede insieme a una città distrutta dalla guerra nel film con Jean Gabin degli anni Cinquanta, Le mura di Malapaga. Nel 1969 a Genova nasceva il primo terminal container del Mediterraneo e seguirono anni di dure lotte sindacali.
Dal blocco del cargo abbiamo deciso di costituire insieme ad altri attivisti e lavoratori l’associazione Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e del Mediterraneo (https://www.weaponwatch.net/), dopo che il movimento stesso nato dalla mobilitazione ha pensato di dotarsi di uno strumento di conoscenza. I primi a far esplodere la contraddizione, rifiutandosi di maneggiare queste merci mortifere, sono stati proprio i portuali che avrebbero dovuto favorire con il loro lavoro un’operazione per la guerra dello Yemen, condotta dall’Arabia Saudita e sostenuta dai suoi alleati nel Golfo e in Occidente in violazione delle Convenzioni di Ginevra, della Carta Onu e del Trattato sulle armi convenzionali. Come ha sottolineato Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal (Osservatorio permanente armi leggere di Brescia), autore insieme a Sergio Finardi del libro La strada delle armi (Jaca Book 2002) e tra i fondatori di Weapon Watch, l’associazione è nata dalla volontà di creare uno strumento trasversale di analisi e un luogo critico in cui discutere e confrontare idee, creando dibattito e conflitto, e definendo una geografia dei produttori di armi che trasportano questa merce di transito nei porti attraverso la parallela costruzione di una rete nazionale e transnazionale.
Quasi un anno dopo quella mobilitazione la circostanza si è ripetuta per la seconda volta il 17 febbraio scorso, di lunedì, ma a differenza della volta scorsa non c’erano le elezioni europee all’orizzonte e di conseguenza il coinvolgimento politico e sindacale è stato pressoché nullo, nonostante l’attenzione mediatica. Poco prima dell’arrivo della Yanbu in porto, inoltre, è avvenuto il sequestro di un cargo libanese sospettato di aver trasportato armi verso la Libia, con arresto del capitano e ispezione a bordo della Digos.
Come ha ricostruito Carlo Tombola, a inizio febbraio scorso la Yanbu avrebbe dovuto scalare cinque porti europei prima di attraversare il canale di Suez: Bremerhaven, Anversa, Tilbury, Cherbourg e Genova. In previsione dell’arrivo nel porto di Anversa, alcune organizzazioni contro il commercio di armi hanno deciso di mobilitarsi. Autoproclamandosi “cittadini ispettori delle armi” hanno istituito un checkpoint di cartone per fermare il traffico. Tre ong belghe hanno presentato un’istanza alla magistratura per bloccare l’imbarco delle armi sulla nave, stabilendo che le autorizzazioni alle esportazioni militari sono prerogativa dei parlamenti regionali e quindi del governo fiammingo nel caso di Anversa. Inaspettatamente, la nave è rimasta qualche ora al largo e poi ha proseguito verso sud senza entrare nel porto…
Illustrazione © di David Marchetti