Andrea Maggiolo – Fonte: ©Redattore Today
27 novembre 2020
Associazioni della società civile chiedono una moratoria sulle spese per armi nel 2021: “Siamo impegnati a trovare risorse per la Sanità e l’Istruzione pubblica e sprechiamo soldi per prepararci alla guerra”. Cosa ci difende meglio oggi dalla pandemia? La riconversione industriale dal settore militare ad altri ambiti è un’opzione reale? Vediamoci chiaro
dettagli della Legge di Bilancio si sapranno negli ultimi giorni del 2020, come sempre l’ok del parlamento arriverà in extremis prima di Natale o Capodanno. ma secondo quanto attualmente in discussione in Aula, nel 2021 l’Italia spenderà oltre 6 miliardi di euro per acquisire nuovi sistemi d’armamento: cacciabombardieri, fregate e cacciatorpedinieri, carri armati e blindo, missili e sommergibili. Una cifra complessiva che è sostanzialmente in forte aumento rispetto agli ultimi anni, e che deriva dalla somma di fondi diretti del Ministero della Difesa e di quelli messi a disposizione dal Ministero per lo Sviluppo Economico. Tanti soldi. Una marea.
Non è mai troppo tardi per ribadire quanto sia urgente spostare i fondi dai bilanci militari verso altri obiettivi, quali la lotta contro il virus che ha messo in ginocchio il mondo e il rimedio ad altre crisi sociali e ambientali: varie associazioni lo chiedono da tempo, sulla base di questo ragionamento: “Le armi e gli eserciti non ci garantiranno maggiore sicurezza. Anzi, renderanno sempre più catastrofiche le conseguenze dei conflitti attualmente in corso e quelli futuri. Dobbiamo invece dedicare le nostre energie a costruire dialogo, iniziative di diplomazia, politiche di sicurezza comune. E ciò è particolarmente evidente nella lotta contro il Covid-19, una minaccia non militare che potrà essere risolta solo con la cooperazione globale”….
“La riconversione è un processo che non si fa dall’oggi al domani – ci diceva in primavera Giorgio Beretta (Opal)– Significa infatti non solo cambiare il tipo di produzione o adattare temporaneamente qualche macchinario, ma – appunto – convertire l’intera linea produttiva, utilizzando il più possibile tutti i macchinari già presenti, alla produzione civile. Ciò implica, da un lato, definire con precisione un nuovo prodotto o serie di prodotti di utilità sociale e non di tipo militare, dall’altra uno studio tecnico e ingegneristico per adattare i macchinari già presenti in azienda”.
C’è la volontà politica?
Serve innanzitutto “la volontà politica di cambiare linea di produzione (e non solo di diversificarla, come potrebbe essere ad esempio per produrre elicotteri sia civili che militari) e quindi della definizione della modalità tecniche per operare questa trasformazione – continua Beretta – . Non è, però, un processo difficile: le competenze di tecnici, ingegneri e nelle università ci sono; ciò che manca, invece, è la volontà del mondo politico per innescare e accompagnare questo processo. Da sempre, infatti, gran parte delle forze politiche guardano con sospetto i processi di riconversione perché, mostrando che “si può fare”, ritengono che rappresentino una minaccia alla produzione militare che ovviamente considerano prioritaria e strategica”.
Gli ostacoli sono innumerevoli. Beretta citava l’esempio della Valsella, azienda che produceva le famigerate mine antipersona e che passò a produrre componenti elettronici, dopo un lungo lavoro di sensibilizzazione partito da alcune operaie stanche di produrre strumenti di morte.”Nonostante la disponibilità da parte della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Brescia, non fu di fatto “riconvertita”, ma si decise di cambiarne produzione: la riconversione dell’azienda era vista come una minaccia da gran parte del mondo imprenditoriale e politico bresciano e nazionale”.