Dalla pena di morte al ‘Caso Regeni’: gli affari di armi prevalgono su diritti umani e giustizia

Comunicato Stampa

Brescia, 1 dicembre 2018

Pochi giorni fa, il Governo italiano ha deciso di porre la questione di fiducia sul decreto ‘migrazione e sicurezza’. Lo ha fatto per impedire un più ampio dibattito, che sarebbe stato doveroso per norme che introducono (reintroducono?) il confino tra le misure di polizia (perché tale è il cosiddetto ‘daspo urbano’); o che renderanno legale detenere i cittadini migranti fino a sei mesi nei ‘centri di rimpatrio’: cittadini per i quali la concessione della cittadinanza e la possibilità della sua revoca dipenderanno da atti puramente arbitrari. Nonostante il parere negativo del Consiglio Superiore della Magistratura, e tra gli applausi della maggioranza alla Camera, il governo impone come via per gestire i flussi migratori un atteggiamento discriminatorio, di sopraffazione e repressivo, puntando sull’intervento poliziesco in tutte le questioni sociali più difficili. Non è ancora chiaro se verrà tolta la protezioneanche ai rifugiati su cui pende o che rischiano di subire una condanna a morte nel proprio paese d’origine.

L’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Sicurezza ricorda che i paesi dove nel 2017 si sono eseguite condanne a morte sono la Repubblica Popolare Cinese(il numero delle esecuzioni non viene reso noto, ma è probabile che sia nell’ordine delle migliaia), la Repubblica Islamica dell’Iran(507 condanne eseguite lo scorso anno), il Regno dell’Arabia Saudita(146), la Repubblica d’Iraq(125), la Repubblica Islamica del Pakistan(60), la Repubblica Araba d’Egitto(35), la Repubblica federale di Somalia(24), gli Stati Uniti d’America(23), il Regno Hascemita di Giordania(15), la Repubblica di Singapore(8), lo Stato di Kuwait(7), la Repubblica Popolare di Bangladesh(6), lo Stato della Palestina(6), la Repubblica Islamica di Afghanistan(5), il Regno Federale di Malesia(4), lo Stato del Giappone(4), la Repubblica del Sudan del Sud(4), il Regno del Bahrein(3), la Repubblica di Bielorussia (2), la Repubblica Unita dello Yemen(2), gli Emirati Arabi Uniti(1), la Repubblica Popolare Democratica di Corea, la Repubblica Socialista del Vietnam.[1]
Oltre a questi 23 paesi, oggi la pena di morte rimane ancora in vigore in altri 33 paesi.

Il nostro paese intrattiene relazioni – talvolta economicamente anche molto rilevanti – con quasi tutti i paesi in cui si eseguono ancora condanne a morte, e di alcuni ospita consistenti comunità di cittadini espatriati.

Il nostro governo autorizza le esportazioni delle armi prodotte in Italia in quasi tutti i paesi che praticano la condanne a morte. Per considerare solo le ultime dueRelazioni sull’export militareal Parlamento,[2]compaiono tra i primi venticinque paesi acquirenti di armi militari prodotte in Italia gli Stati Uniti, il Pakistan, l’Iraq, l’Arabia Saudita, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti, il Bangladesh, la Malesia, Singapore. Nel 2017 il maggior importatore di armi italiane è stato il Qatar, che mantiene la pena capitale per reati come l’omicidio, i crimini contro lo Stato, il traffico di droga, gli abusi sessuali su un parente, il proselitismo religioso e inoltre – per i soli musulmani, secondo la Sharia – l’adulterio. I tribunali qatarini continuano a comminare sentenze capitali (soprattutto contro stranieri), e attualmente almeno 11 condannati attendono l’esecuzione nel ‘braccio della morte’, anche se dal 2003 non vi sono state più esecuzioni.

Al contrario il Kuwait, principale acquirente di armamento italiano nel 2016, pratica attivamente la pena di morte (7 esecuzioni nel 2017, 36 detenuti nel ‘braccio della morte’), a cui possono andare soggetti anche minorenni (la maggiore età di 16 anni è in vigore dal 2017), nonostante il Kuwait abbia firmato la Convenzione sui Diritti dell’infanzia e la Carta araba dei diritti umani, che espressamente lo escludono. Sia il Qatar che il Kuwait hanno votato contro la moratoria delle esecuzioni capitali nel 2014, nel 2016 e nel 2017.

Esportiamo armi in paesi che fucilano, impiccano, decapitano, avvelenano o sottopongono a folgorazione elettrica i condannati, paesi che dunque infrangonola Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1953) e le ripetute moratorie sulle esecuzioni capitali approvate dall’Assemblea dell’ONU, documenti che alcuni di questi paesi hanno perfino firmato e ratificato.

Il nostro paese mantiene contingenti militari, presta assistenza militare, addestra corpi speciali, e persino partecipa a programmi di cosiddetta Justice Sector Reform in paesi che mantengono la condanna a morte (come il Libano) o continuano a praticare esecuzioni capitali, come l’Afghanistan.

Per quanto riguarda l’Egitto– paese in cui negli ultimi tre anni sono state comminate oltre mille sentenze capitalie almeno 35 sono state le esecuzioni (la metà per ‘terrorismo’),[3]nonché 13.000 civili sono stati giudicati da tribunali militari dopo la salita al potere del gen. Al-Sisi –, il governo italiano ha ripreso a fornire armamento militare e ‘civile’ (vale a dire a polizie e corpi speciali) a ritmo sostenuto,come ha recentemente confermato Giorgio Beretta, analista di OPAL,  a «il manifesto».[4]Anzi, si è arrivati alla sponsorizzazione governativa delle aziende italiane del comparto ‘difesa’ (Beretta, Fincantieri, Iveco, Leonardo, Telegi, Tesy-lab) che parteciperanno all’imminente Egypt Defence Expo, in programma al Cairo dal 3 al 5 di dicembre. Tutto ciò mentre il tribunale di Roma denuncia di non aver ricevuto in due anni e mezzo alcuna vera collaborazione dalla giustizia egiziana nel caso Regeni, avviando proprie indagini su nove agenti egiziani sospettati delle torture e dalla morte del giovane ricercatore italiano, eil presidente della Camera Roberto Fico annuncia – per la stessa ragione – la rottura delle relazioni con il parlamento egiziano.

1]      Secondo il rapporto di Amnesty International, Condanne a morte ed esecuzioni nel 2017pubblicato nell’aprile 2018. Da notare che nella RPC, in Vietnam e in Bielorussia i dati sull’applicazione della pena di morte sono considerati “segreto di Stato”; che Singapore consente solo un accesso ristretto ai dati; e che le notizie di sentenze capitali probabilmente eseguite in Siria e Libia nel 2017 non sono controllabili a causa della situazione di conflitto.

[2]      Cfr. Presidenza del Consiglio, Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2016, pubblicata nell’aprile 2017, e ibidem, Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2017, pubblicata nel maggio 2018.

[3]      Anche per l’Egitto, le autorità sono scarsamente trasparenti riguardo all’esecuzione delle condanne a morte.

[4]      Chiara Cruciati, Armi ed expo militare, affari italiani al Cairo, «il manifesto», 29.11.2018.

 

 

Rassegna Stampa del Comunicato

La Repubblica – “Dalla pena di morte al Caso Regeni: gli affari legati alle armi prevalgono sui diritti umani e giustizia”