Giorgio Beretta – Fonte: © Osservatorio Diritti
A 30 anni esatti dall’approvazione della legge 185/90 sul commercio d’armi, l’Italia registra un’impennata senza precedenti nelle esportazioni, soprattutto verso regimi autoritari e Paesi in guerra. L’articolo meno applicato della norma? Quello sulla conversione delle industrie della difesa a fini civili
Oltre 41 miliardi di euro. A tanto ammontano le autorizzazioni all’esportazione di sistemi militari italiani dell’ultimo quinquennio. Una cifra che, da sola, si avvicina al valore totale di tutte le licenze rilasciate nei 25 anni precedenti (poco più di 64 miliardi, in valori costanti). Basterebbe questo dato per comprendere che qualcosa è cambiato nelle dinamiche, ma soprattutto nelle politiche che riguardano le esportazioni di armamenti del nostro Paese.
Mentre per due decenni i governi che si sono succeduti hanno cercato di attenersi alle stringenti regole della legge n. 185 che il 9 luglio 1990 ha stabilito “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”, nell’ultimo decennio, complice anche la crisi finanziaria del 2008, l’obiettivo è stato invece quello di promuovere e incentivare l’export militare.
Un modo, nemmeno tanto originale, di fronteggiare la recessione economica, privilegiando le esportazioni delle aziende a controllo statale: Finmeccanica (oggi Leonardo) e Fincantieri, i due colossi nazionali della produzione militare.
«Rilanciare la competitività internazionale delle aziende per far ripartire il Sistema-Paese» è diventata la nuova parola d’ordine. Un motto che la “campagna navale” capitanata dalla portaerei Cavour affiancata da altre tre navi della Marina Militare ha fatto proprio col tour promozionale dell’industria bellica che dal novembre del 2013 all’aprile del 2014 ha toccato i principali porti del Medio Oriente e dell’Africa.
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Immagine: Elaborazione di Giorgio Beretta sulle relazioni della Presidenza del Consiglio