di Giorgio Beretta – Fonte: © Il Manifesto
Domani si apre il salone navale di La Spezia, ieri corteo di protesta nella città ligure. I possibili acquirenti di armamenti italiani: i regimi autoritari tra Africa e Medio Oriente.
C’è una fiera in Italia che ha un obiettivo preciso: vendere armamenti. Si chiama «SeaFuture 2023» ed è il salone militare-navale, che verrà inaugurato domani all’Arsenale militare di La Spezia dal ministro della Difesa, Guido Crosetto.
L’evento, giunto all’ottava edizione, è organizzato da Italian Blue Growth insieme alla Marina militare ed è promosso dalle aziende del comparto militare, soprattutto da quelle a controllo statale: dal colosso delle navi Fincantieri (Strategic sponsor), a quello dei missili Mbda (Diamond sponsor) alla principale azienda nazionale produttrice di armamenti, Leonardo (Silver sponsor).
«SEAFUTURE è cresciuta negli anni e oggi si afferma nel panorama nazionale e internazionale come piattaforma di business e confronto tecnico-scientifico che mette intorno allo stesso tavolo i big player dell’economia del mare, la Marina militare, le piccole e medie imprese, gli esponenti del mondo accademico e della ricerca, i cluster tecnologici marini e marittimi», affermano i promotori.
A cui replicano le numerose associazioni locali del comitato «Riconvertiamo Seafuture» che ieri ha dato via a un corteo di protesta lungo le vie della città ligure a cui hanno partecipato oltre 300 cittadini.
«Nel corso degli anni, SeaFuture è stata trasformata in una fiera militare, unica in Italia, dove gli operatori principali sono le aziende del settore degli armamenti insieme alla Marina militare. L’evento ha così rimpiazzato la Mostra navale italiana, cioè la Mostra navale bellica, che si è tenuta a Genova negli anni Ottanta e che fu chiusa grazie alle proteste dei movimenti pacifisti.
LA MUTAZIONE di Seafuture, da salone civile dedicato a innovazione, ricerca, sviluppo e tecnologie inerenti al mare a fiera militare non è quindi opera dell’attuale governo di centrodestra. Avviene nel 2014, ministra della Difesa la genovese Roberta Pinotti, all’indomani dell’approvazione della Legge navale, cioè del programma che autorizza fondi statali ventennali per il rinnovo della flotta della Marina: un contributo, scadenzato negli anni, del valore di 5,8 miliardi di euro.
Da lì l’idea di vendere le navi dismesse dalla Marina militare ai «paesi emergenti», soprattutto dell’Africa e del Medio Oriente che – come riportava il comunicato ufficiale di una precedente edizione – «potrebbero essere interessati all’acquisizione delle unità navali della Marina militare italiana non più funzionali alle esigenze della Squadra navale, dopo un refitting effettuato da parte dell’industria di settore». Un salone dell’usato militare, dunque, ben lontano dall’innovazione e dalla sostenibilità.
Come per le due precedenti edizioni, anche quest’anno l’importanza strategica dell’evento viene attribuita allo «sviluppo di opportunità di business» per le imprese nazionali, gli enti e le agenzie del comparto difesa.
E, NON A CASO, per la prima volta oltre alle delegazioni di una settantina di Marine militari di paesi esteri, vi partecipano anche i segretariati generali della Difesa (Gsd), cioè gli enti esteri preposti all’acquisto di nuovi sistemi militari. Tra cui figurano rappresentanti militari di Egitto, Libia, Arabia saudita, Emirati arabi uniti, Israele, Bahrein, Marocco, Somalia, e ovviamente Turchia.
Così, mentre la guerra da oltre un anno imperversa in Europa, alimentata anche dall’invio di armi all’Ucraina da parte dell’Italia e di altri paesi Nato e in assenza di una seria azione diplomatica a favore del cessate il fuoco, l’Italia si fa promotrice della vendita di armamenti a regimi autoritari, responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. In nome della sicurezza e della sostenibilità ambientale.
Foto: OPAL