Italia. Il peso delle armi leggere

Carlo Tombola – Fonte: © Atlante Guerre
20 aprile 2020

L’industria armiera nazionale  ha immesso sul mercato civile circa 10 milioni di  nuovi pezzi  negli ultimi quindici anni. L’intervento di Carlo Tombola, coordinatore scientifico di Opal, illustra l’ultima ricerca su un settore che presenta troppe ombre.

Quello delle armi leggere, e della sua produzione dual use, sportivo-venatoria e militare, è forse il più opaco dei settori produttivi del comparto difesa. Le aziende sottostimano di proposito la loro produzione militare, favorite da una legislazione che classifica la stessa arma – una pistola semiautomatica, un fucile a pompa o di precisione – come “arma comune” se destinata alle forze dell’ordine (polizie di stato, locali o private, guardie forestali o di frontiera, ecc.) ovvero come “arma da guerra” se destinata alle forze armate. Le prime compaiono nelle statistiche del commercio estero, le seconde vi entrano ma non vi compaiono. Attenuano questa opacità i dati del Banco Nazionale di Prova, un ente pubblico con sede a Gardone Val Trompia (BS) che ha il compito principale di testare ogni arma nuova di fabbrica prodotta in Italia.

Con un’accettabile tolleranza, il numero delle armi testate dal BNP corrisponde a quello delle armi comuni da sparo prodotte in Italia, destinate sia all’attività sportiva e venatoria che alla difesa personale e ai corpi non espressamente militari. Nel 2019 le armi provate dal BNP hanno segnato una flessione di quasi il 7% rispetto al 2018, poco più di 700.000 pezzi. Circa la metà è costituita dalle armi lunghe, cioè fucili da caccia e per tiro sportivo che hanno reso celebre il distretto bresciano nel mondo e che sono la parte del mercato a maggior valore aggiunto. Pistole e revolver, invece, sono scesi in un anno del 28%. Dunque il made in Italy delle armi leggere è in crisi?

Niente affatto. Certo, l’andamento produttivo è ancora nella fase calante di un’“onda ciclica” che registra un’ampiezza di 14-17 anni. Infatti i punti più alti del ciclo sono stati toccati nel 1982, nel 1996 e nel 2013, anno in cui venne sfondato il muro del milione di armi. Ma proprio in questo momento di crisi pandemica gli industriali della Val Trompia stanno scalpitando per una ripresa rapida della produzione, che consenta di cogliere i frutti commerciali – non si sa quanto effimeri – della paranoia sicuritaria del pubblico statunitense, che già assorbe circa la metà della produzione italiana e che ai primi annunci del virus è corso a far scorte di munizioni e di armi. In realtà il dato più significativo ci sembra la regolarità produttiva del settore.

Nonostante la struttura da “distretto industriale” radicato nel Bresciano e costituito solo da piccole e medie aziende attorno all’unico polo multinazionale della Beretta, questa “nicchia” ha saputo mettere in circolazione 10 milioni di armi da fuoco negli ultimi quindici anni. È un contributo significativo al già gigantesco “parco” circolante a scala mondiale, 857 milioni di armi alla fine del 2017 (secondo Small Arms Survey), per il 45% nelle mani dei super-armati cittadini degli Stati Uniti. Trattandosi di un prodotto così pericoloso, anzi concepito per uccidere, auspichiamo che un settore “maturo” di così lunga tradizione (in Val Trompia si fanno armi da fuoco da cinque secoli!) voglia finalmente farsi carico almeno in parte delle conseguenze – intenzionali o accidentali – che derivano dall’uso delle armi da fuoco.

Sino ad oggi gli armaioli bresciani hanno tenuto l’atteggiamento opposto: si oppongono alle normative sul controllo dell’export e sulle limitazioni all’acquisto e al possesso, misure peraltro esistenti in tutti i paesi occidentali, anche in forme più restrittive che in Italia; minimizzano la destinazione militare di una parte della loro produzione ma partecipano a tutte le missioni commerciali del Ministero degli Affari Esteri, alle maggiori fiere internazionali di materiale bellico; sostengono la diffusione delle armi “sportive” attraverso la rete dei poligoni privati e persino in ambito scolastico, in associazione con l’esercito; non partecipano a nessun pubblico dibattito sulla “questione armi”, né pubblicano alcun dato sulle vendite nel mercato italiano. Del resto, a contribuire alla mancanza di trasparenza sono anche le autorità dello Stato, dal momento che – per colpevole lacuna del Ministero dell’Interno – non conosciamo neppure il numero di licenze e autorizzazioni al porto d’armi, né di conseguenza la teorica dimensione del parco di armi leggere legalmente detenute in Italia. È quanto denunciano da anni le associazioni della società civile raggruppate nella Rete Italiana per il Disarmo: se tutto il comparto industriale della difesa è quanto mai “opaco” agli occhi dell’opinione pubblica, è per responsabilità dei governi e dei gruppi affaristici, che non intendono rendere conto di quale sia il contributo dell’Italia alla guerra globale “a pezzi” e alla violenza endemica tipica di molti regioni del mondo, dagli Stati Uniti all’America Centrale e al Medio Oriente.

* Coordinatore scientifico Opal

Foto di copertina: Una Beretta M9 (https://commons.wikimedia.org)