Mimmo Cortese – Fonte: Comune Info
24 Marzo 2020
La crescita e poi il dilagare della pandemia vengono raccontati quasi sempre con un linguaggio costellato di trincee, prime linee, fronti, eserciti e barricate per indicare ospedali, medici, infermieri e terapie intensive. Questa è una guerra è stato l’incipit di un fiume impetuoso di dichiarazioni, da quelle dei luminari delle malattie infettive fino ai presidenti manager dello sport che rinunciano tanto malvolentieri agli eventi programmati.
Un segnale evidente che questo modo di guardare il mondo penetra sempre più a fondo anche nell’ordine simbolico e psichico della rappresentazione del reale, una manifestazione che ci indica come si stia sedimentando l’idea che le crisi, le difficoltà, le incertezze (una parola così importante di questa situazione) si risolvono con meccanismi trancianti, cesure nette, scelte indiscutibili e, se necessario, strumenti repressivi, violenti, totalizzanti.
Le metafore della militarizzazione dell’emergenza, anche quella economica, raccontano sempre molto più di quanto non appaia, scrive Mimmo Cortese, che a Brescia, con Bergamo l’epicentro della tragedia lombarda, vede ogni giorno crescere intorno a sé le ombre e i messaggi funesti del carattere più irreparabile del tempo sconcertante che stiamo vivendo, quello dei cimiteri incapaci di contenere le vittime del virus. Per questo è così importante che sia lui a ricordarci con le affermazioni di un grande filologo polacco, Victor Klemperer (La lingua del Terzo Reich), che le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non aver alcun effetto, ma dopo qualche tempo rivelano tutto l’effetto di questa orrenda narrazione tossica.
Le parole per affrontare questa pandemia, sostiene Mimmo, sono cura, ricerca medica, responsabilità, condivisione, attenzione, salute, precauzione, guarigione, cautela, solidarietà, fragilità, lentezza, protezione, amore. Nulla a che vedere né con la guerra, né con i simboli che essa scatena
(…) Scrivo queste poche parole da Brescia, da una delle città più pesantemente colpite dal Covid 19, una città con una storia e una propensione alla solidarietà, alla condivisione, alla costruzione di relazioni rispettose delle differenze e della dignità di ogni uomo e ogni donna, molto antica e radicata. Una città la cui storia antifascista, nonviolenta e di lotta democratica per le conquiste civili e sociali, ha fondamenta forti e solide.
A Brescia da tre anni si tiene il Festival Internazionale della Pace. Voglio augurarmi che tutti i costruttori di pace, gli attivisti, le associazioni, le istituzioni, la scuola, gli studiosi, i giornalisti, i docenti universitari e gli uomini e le donne che hanno dato il loro importante contributo vogliano iniziare a parlare con un linguaggio di pace anche in questa terribile situazione, preparandosi già da oggi all’uscita dall’emergenza sanitaria seguendo la strada che “promuove la cultura e la pratica della pace, del ripudio della guerra, della non violenza, della giustizia sociale, del rispetto dei diritti umani in conformità ai principi contenuti nei documenti internazionali in difesa dei diritti dell’uomo e dei popoli”, come è scritto a chiare lettere anche nella carta fondativa della vita civile della città, lo Statuto del Consiglio Comunale.