Marco Magnano – Fonte: ©Riforma
19 febbraio 2020
La vendita di armi e mezzi militari dall’Italia all’Egitto non conosce crisi. Su questo piano così redditizio si sacrificano i principi democratici e umanitari. L’analisi di Giorgio Beretta (Opal)
L’arresto di Patrick George Zaki, lo studente egiziano che stava svolgendo un master all’università di Bologna prima di essere recluso in Egitto con l’accusa di attacco contro lo Stato, sta diventando un caso internazionale. A differenza della vicenda, certamente più famosa, di Giulio Regeni, scomparso nel nulla il 25 gennaio 2016 e ricomparso, senza vita, il 3 febbraio dello stesso anno, in questo caso l’attenzione si è sollevata immediatamente. Eppure, finora niente sembra smuovere le procure egiziane. Sabato scorso il giudice del Tribunale di Mansoura ha respinto l’istanza di scarcerazione presentata dai legali e dalla famiglia. Della sua sorte si sa poco, se non che è stato sottoposto a torture e che le condizioni di detenzione sono inaccettabili secondo il diritto internazionale. Eppure, le relazioni del nostro Paese con Il Cairo non sembrano risentirne, dando in qualche modo ragione al governo egiziano, che sottolinea quanto la vicenda Zaki sia una questione interna.
Una spiegazione di questa stabilità, di questa generale accettazione da parte italiana dell’atteggiamento egiziano, si può ritrovare in un dato, quello delle autorizzazioni alla vendita di armi e mezzi militari italiani verso il Paese guidato da Abdel Fattah al-Sisi. «Stiamo parlando di nuovi possibili contratti per l’esportazione di armamenti dall’Italia all’Egitto per oltre nove miliardi di euro», spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e le Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia.
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